Il maestro di tango

“Un po’ di pazienza, più avanti faremo le figure; ma adesso camminate: un passo, altro passo, altro ancora… Lei, guardi me, bilanci il corpo più in avanti, scarichi il peso sul tempo, uno, due, uno, due… Voialtri, ascoltate la musica, camminate con la musica. Sandra, sì tu, gli argentini non tengono il corpo rigido né si muovono a scatti; quelli sono i robot, oltre a Rodolfo Valentino, che ballava il tango come un cane. Muoviti in modo più languido, ma fermo…”

Queste cose le dico ormai anche quando dormo, sono cinque anni che faccio il maestro di tango in Italia. Prima a Roma, poi a Firenze, e infine qui a Cremona, dove ho avuto l’occasione di mettermi in proprio con la scuola e la milonga. Sono un immigrato di successo, potrei dire; sono arrivato in Italia senza una lira, con il bagaglio ridotto ad un piccolo zainetto, e con una conoscenza della lingua meno che mediocre. Oggi ho un conto in banca, una moglie, una macchina di seconda mano e, da qualche mese, anche la cittadinanza italiana.

La cittadinanza l’ho avuto per matrimonio; no, non sono d’origine italiana. Arroyo è sì un cognome spagnolo, ma è solo un nome d’arte che ho scelto quando ho cominciato a cercare lavoro in Italia. Suona bene, no? Julián Arroyo, dà idea di qualcosa di autenticamente argentino. Anche se Isaac Blubstein, il mio vero nome, Isa per gli amici, è argentino sul serio, e in Italia non lo sembra. Chi prenderebbe lezioni di tango da uno che si chiama Blubstein? Forse il pregiudizio è mio, e agli italiani “Arroyo” suona tanto esotico come Blubstein; non riescono neanche a pronunciarlo, dicono “Iúlian Árroio”.

Sì, sono ebreo come dite voi italiani; a me “ebreo” da l’idea di qualcosa di religioso, di talmudico; io mi considero judío (sarebbe giudeo), che è un’appartenenza culturale, e non necessariamente religiosa. Anzi, “rusito”, piccolo russo, come mi dicevano da piccolo alla scuola, perché i miei sono di origine tedesca, ma in Argentina la maggioranza dei giudei aveva il passaporto russo, perché erano polacchi, ucraini o moldavi, e allora esisteva ancora l’impero. Cosa curiosa le parole, che crescono per mezzo di errori, di eufemismi tragici, di metafore e di deformazioni umoristiche. La fabbrica delle lingue assomiglia più alle pareti dei gabinetti pubblici che alle accademie. Mi hanno detto che anche in Italia i giudei si dicevano giudei. Però è venuto il fascismo, con la sua paranoia razziale, e “giudeo” è divenuta una parolaccia, così che “ebreo” è emersa dal polveroso scaffale degli arcaismi per tornare attuale. Solo che le parole non si cambiano impunemente, portano con sé ombre di contenuto che ne cambiano il senso.

È curioso, quasi inconcepibile per un italiano, ma sono le parole quelle che mi hanno portato al tango. Il tango parlava come me, in quella lingua argentina infarcita dal lunfardo della strada e dalle parole di mille lingue e dialetti del mondo. Non immagini neanche quanto ci si può sentire sollevato, quanto può alleggerire il cuore ascoltare una storia nella propria lingua. Questo perché a scuola ci obbligavano a leggere testi in un presunto castigliano colto, pieno di parolone spagnole di significato enigmatico e suono alieno. L’Argentina è forse l’unico paese che vive la propria lingua nazionale come se fosse un dialetto, vergognandosi. Tranne che nel tango, nel quale esibisce impudicamente il proprio dire.

Poi è venuta la musica, come sfondo giusto della vita. Molto Piazzola e Ferrer, che era la forma musicale di Plaza Francia, Santa Fe, Las Heras, le strade che amavo percorrere, anche se i miei vivevano in Pueyrredón, nel limite tra l’Once e l’Abasto. Ma avevo anche la Tita Merello, la cantante di mia madre, che quando era allegra cantava Pipistrella o Se dice de mí con una bella voce calda che non aveva perso cadenze idish. Mamma aveva lavorato da giovane come operaia in un’officina che faceva camicie da uomo, e riscattava la fierezza e l’orgoglio della Tita perché erano il marchio di quella generazione di ragazze che lavoravano e che avevano soldi propri in tasca, le “fabriqueras”. La stessa ragione per la quale si diceva peronista, nonostante fosse ormai di classe media, più in alto che in basso. Credo che il tango mi ha impregnato l’identità senza che io ne fossi consapevole, come una malattia. Ascolti casuali alla radio, in un tassì, in un caffè, ricordi, moduli che sorreggono l’amore, la rabbia, il dolore. Io credevo di amare il rock; un po’ vergognandomi amavo anche il bolero. E in realtà mi stavo impregnando di tango come una spugna, per il solo fatto di vivere a Buenos Aires. Quando ho cominciato a ballare… No, non ballo il tango da ragazzo, e meno ancora frequentavo allora le milongas; avevo vent’anni negli anni 80, quando le sale che facevano tango erano rifugi melanconici di pensionati. Io comunque non sapevo ballare, le mie poche incursioni nelle discoteche sono state memorabili per i disastri che combinavo. Ho cominciato a ballare tango negli anni 90, come tutti; ero un giovane, brillante dirigente aziendale, CEO della Pálida punto com, e avevo i soldi che servivano per fare un buon corso con il maestro più in vista. No, certo che non si chiamava così la mia azienda, ma non ti voglio dire il vero nome; la causa non è ancora finita, capisci?

Il fatto è che ho sentito mio il tango virtualmente dal primo passo. Mi usciva con semplicità, senza sforzo; il mio incedere entrava in sintonia con la musica non appena mi muovevo. Il Maestro me lo disse subito: “tu hai un talento naturale” (e aggiungeva: “ma sei pigro e indisciplinato”). Non saprei dire da dove usciva un simile talento; sicuramente no dall’eredità genetica, che mi avrebbe portato semmai verso il klezmer centroeuropeo. Per me il tango è qualcosa che respiri inconsapevolmente, come una sorta di smog culturale, e che a poco a poco modifica il tuo portamento, il ritmo del tuo corpo, e poi il tuo comportamento, il ritmo del tuo pensare e del tuo sentire. Una malattia appunto, che fa diventare portegno un tizio qualunque.

Come si può insegnare una malattia? Credo di non essere un maestro di tango argentino, ma un untore di tanghitudine che diffonde il contagio in queste linde città italiane, un po’ noiose e vuote. Per me è ancora un mistero il mio successo: perché vengono ai miei corsi, che ci trovano i non più tanto giovani professionisti di provincia? In primo luogo trovano le donne, perché le prime allieve di tango in Italia sono state di genere femminile, includendo la mia compagna di ballo e di vita. Alla faccia del conclamato maschilismo del tango! I primi maestri avevano decine di donne per ogni uomo, e dovevano fare i salti mortali per far ballare tutte. Poi le donne hanno preso i maschietti dalla collottola, e hanno portato loro a forza alle “pratiche”.

Non ho fatto altro che spostare la domanda: e che cosa è che attrae le donne di classe media verso il tango? “L’eleganza”, mi disse Anna, la mia compagna. “Un’eleganza impossibile, come il gelato freddo nel cappuccino caldo; un delicato equilibrio tra le figure ispide e la liquida fluidità dei movimenti, tra l’abbandono erotico ed il rigore severo delle regole, la lentezza veloce, la passione sapiente, la complessità semplice”. –“Come un frullato?”, risposi io;

- “No, non un frullato, gli ingredienti sono ben distinti e integri; ma vanno insieme, ed è impossibile separarli”.

Potrei parlare ore del tango e gli italiani, ma molto meno di quel che significa il tango per gli argentini. Sì, torno a Buenos Aires una volta l’anno, l’ho fatto anche i primi due, ed era un vero sacrificio, dovevo risparmiare sul mangiare per pagarmi il biglietto. L’anno scorso ci sono stato tre mesi, ho speso un capitale in corsi di approfondimento e in milonghe tutte le sere. Certo che è un investimento, fare questi corsi migliora la mia quotazione come maestro, ma la mia motivazione è forse meno professionale di quel che sembra. La verità è che sento sempre meno l’Argentina. La prima settimana è il paradiso, il mio palato si adagia sui vecchi sapori dimenticati, il mio corpo respira l’aria della città come chi ritrova la nicchia che le è propria, anche se è intrisa della tenace umidità di quei giorni d’inverno nei quali l’acqua cola sulle pareti. La prima settimana sono in uno stato di grazia, nel quale mi ritrovo perfino nei discorsi cretini dei tassisti, nel rumore assordante del traffico, nella puzza di gomma bruciata, aria viziata e umano sudore della metropolitana.

Poi… Ritrovo la mamma, sempre più piccola e vecchia, nel suo appartamento troppo grande per lei che riempie di cianfrusaglie e di semplice spazzatura per non vedere il vuoto. Un vuoto che tenta di riempire anche in me, rimpinzandomi di knishes e berénikes, di puchero e milanesas fin quando rimpiango le paste italiane, perso in quest'abbuffata argentino-idisch. La mia mamma pensionata nella miseria, ridotta a ringraziare una e mille volte i pochi dollari che riesco a inviarle ogni due o tre mesi.

Ritrovo gli amici di un tempo, persi nelle loro battaglie individuali contro il mondo, ed è un equivoco permanente. Loro hanno vissuto la crisi fino in fondo, affogati in una palude di debiti, tradimenti, ingiustizie e sfortune. Poi sono risaliti lentamente, liberandosi della melma a forza di disperazione, e adesso si trovano come prima, un po’ più cinici e un po’ più umani, ma con la macchina griffata, il cellulare megagalattico, il bell'appartamento nel Barrio Norte e la seconda casa in un country modesto che sono il segno di appartenenza alla classe media argentina. Perché la povertà, la vera povertà che ha lasciato la crisi è roba d’altri: di quegli argentini di pelle bruna che rovistano nella spazzatura non appena cala la notte, che marciano fieri ma tristi, silenziosi e composti, inalberando striscioni ingrigiti in una città che li ignora; che alimentano la cronaca nera dei giornali e la clientela elettorale della destra con un’interminabile serie di delitti e violenze, che preludono il carcere e la morte, destino finale dei perdenti nella nostra bella società. Mi vedo negli occhi dei miei amici, e sono un alieno. Sono quello che ha detto ‘fermate il mondo’ ed è sceso; quello che ha mollato, un fanciullone che vive in Europa, nel mondo delle eterne vacanze, tra agi e balocchi, e che non lavora neanche, perché insegnare a ballare il tango non è un lavoro vero. M’invidiano perché i miei abiti sono italiani (e ché altro potevano essere, se vivo in Italia?) perché vado al mare in Liguria (come schiere di operai, telefoniste e donne delle pulizie) perché immaginano chissà quale opulenza, quali lussi in una vita che è in realtà piuttosto sordida. Ma nel contempo mi compatiscono perché ho bruciato il futuro, perché non sono più sulla breccia a lottare, perché il mio esilio dorato è un modo di essere perdente, in sostanza non diverso di quello degli uomini che frugano nella spazzatura.

Faccio il giro completo delle milonghe, finché il tango non mi lascia pieno e un po’ nauseato, come un dolce troppo dolce. Trovo un’umanità varia, ogni anno più somigliante a quella che frequento abitualmente in Italia. Ci sono i turisti del tango, tanti; i turisti “seri”, quelli che tentano di capire fino in fondo lo spirito burlone del 2x4, e anche quei cafoni delle crociere, che saltano e agitano le pance voluminose e i fianchi sfatti come hanno fatto a Santo Domingo, a Bahia e a Rio de Janeiro, senza cambiare il ritmo. Tutti loro accolti da portegni venali e compiaciuti, che dicono di sì a tutto se dietro vengono i dollari o gli euro. I miei colleghi, in fin dei conti; perché scopro che anch’io sono finito nelle maglie dell’industria turistica, che anch’io sono diventato un pappone della cultura esotica. Che male abbiamo fatto, senza saperlo, noi maestri di tango!

Esagero, ovviamente; a Villa Urquiza, a El Beso, un po’ anche all’Arranque, ritrovo dei cari amici che amano sinceramente il tango, che ne traggono identità e consolazione, che vanno alla milonga come chi torna a casa, per sfuggire alle durezze e le brutture del mondo. Ma anche loro, nella sconfinata disponibilità della loro amicizia, mi mettono da parte. Scherzano di personaggi che non conosco, alludono a programmi televisivi che non vedo; anno dopo anno, viaggio dopo viaggio trovo che usano nuove parole di una lingua portegna che sempre meno è la mia. Scopro che perfino la cadenza del parlare si modifica impercettibilmente; la mia rimane ancorata al passato, sottilmente influenzata dall’italiano per sopraggiunta, e mi mette subito in evidenza.

Mi ritrovo nel limbo del migrante, solo e senza appartenenze, inadeguato qua e là, teso alla ricerca di una forma, di un limite corporeo che contenga la mia identità, e sempre più a rischio di frantumarmi in mille pezzettini. Non sono più argentino, se lo sono stato, e non sono ancora italiano, se mai lo sarò, e se voglio veramente esserlo. Mi sento disincarnato, un essere incorporeo bloccato a metà di un passo: bella cosa per uno che vive del ballo… Torno a riflettere sul tango con una nuova consapevolezza; forse è questo sradicamento del migrante il segreto del caldo e del freddo, del ritmico e del languido che convivono senza integrarsi, come nemici incatenati, nelle cadenze del tango. C’è una tensione disperata, che è quella di chi cerca la sua identità senza trovarla, e che nel farlo inventa una forma impossibile. C’è un’annichilazione dell’io che porta ad un’individuazione selvaggia e totale, alla solitudine.

Capisco perché il mio modo di ballare è cambiato, perde le figure briose e sfidanti e si riduce ad un forte abbraccio sotto il quale i piedi s’intrecciano in movimenti appena accennati. Quel abbraccio di tre minuti mi salva la vita, sento il mio corpo in un altro corpo, trovo la mia forma nella forma della donna, mi aggrappo ad una persona forse sconosciuta per non perdere quel che resta di me. Sono un migrante di successo.